VENETIA 1600. Nascite e rinascite Venezia

Venezia 1600, Nascite e rinascite Venezia

Venezia, Palazzo Ducale – Appartamento del Doge Dal 4 settembre 2021 al 25 marzo 2022

Direzione scientifica: Gabriella Belli
A cura di: Robert Echols, Frederick Ilchman, Gabriele Matino, Andrea Bellieni

Chronicon Altinate, XI-XII secolo: «L’anno sopradetto 421 il giorno 25 del mese di Marzo
nel mezzo giorno del Lunedì Santo, a questa Illustrissima et Eccelsa Città Christiana, e
maravigliosa fù dato principio ritrovandosi all’hora il Cielo in singolare dispositione...».
Il mito di Venezia sta anche nella leggenda della sua fondazione, coincidente con la posa
della prima pietra della chiesa di San Giacometo a Rivoalto il giorno dell'Annunciazione
alla Madonna. Una leggenda che, tramandata dai cronachisti e storiografi veneziani, mise
insieme racconti che si erano intrecciati nei secoli a sostegno della straordinarietà e del
valore di Venezia: città eletta da Dio.
421 - 2021. Venezia celebra i suoi 1600 anni e lo fa anche con una monumentale mostra
messa in scena – è il caso di dire – nel luogo simbolo del potere e della gloria della
Serenissima: il Palazzo dei Dogi in Piazza San Marco.
Sorta di grande e sorprendente racconto illustrato attraverso i secoli, la mostra
promossa dalla Fondazione Musei Civici di Venezia si propone il difficile ma
entusiasmante compito di raccontare – attraverso oltre 250 opere d'arte, manufatti
antichi e documenti rari – i momenti, i luoghi, i monumenti e i personaggi che hanno
segnato la storia di Venezia, scegliendo un inedito punto di vista, ovvero quello degli
innumerevoli momenti di crisi e rotture e delle altrettante rigenerazioni e rinnovamenti
che hanno segnato la sua esistenza.

"Nascite e rinascite": tappe salienti della storia e dell’identità di Venezia più e più volte
chiamata a ridisegnare il suo futuro e ripensare il suo destino, testimoniate dalle opere e
dai documenti dei massimi artisti che in laguna hanno operato nell’arco di quasi un
millennio – Carpaccio, Bellini, Tiziano, Veronese, Tiepolo, Rosalba Carriera, Guardi e
Canaletto, fino a Canova, Hayez, Appiani; e poi Pollock, Vedova, Tancredi, Santomaso –
ma anche di tanti architetti, talentuosi uomini d’arte, letterati e musicisti che hanno
accompagnato il suo divenire.
Un’occasione preziosa anche per ammirare, riunita in una narrazione avvincente, una
parte importante dell’immenso patrimonio conservato in città e in particolare nelle
collezioni dei Musei Civici, con tanti e significativi restauri sostenuti per l’evento in
particolare da Save Venice Inc., come la grandiosa tela con il Leone di San Marco di
Vittore Carpaccio (opera di oltre 3 metri di lunghezza), il Ritratto di famiglia di Cesare
Vecellio e la monumentale pala di Jacopo Palma il Giovane con Madonna col Bambino in
gloria, San Magno che incorona Venezia affiancata dalla Fede, ma manche un raffinato
mosaico cinquecentesco, rari manoscritti miniati, preziosi disegni, un importante vaso
cinese della dinastia Yuan del XIV secolo e molto altro ancora.
Con uno scenografico allestimento affidato Pier Luigi Pizzi e l’attenta direzione
scientifica di Gabriella Belli, curata da Robert Echols, Frederick Ilchman, Gabriele Matino
e Andrea Bellieni, la mostra è divisa in 12 sezioni, ripercorse anche nell’approfondito
catalogo edito in doppia edizione, italiana e inglese, da Museum Musei: 1) Introduzione,
2) La città eletta , 3) Regina del mare, 4) La città dei mercanti, 5) Renovatio Urbis: Andrea
Gritti e gli architetti, 6) L’incendio di Palazzo Ducale, 1577, 7) La peste, 1576 e 1631, 8)
Settecento: gloria e caduta della Serenissima, 9) Ottocento, rivoluzione e unificazione, 10)
La capitale dell’arte contemporanea, 11) Acqua Granda, 1966, 2019, 12) Venezia e il
futuro.
Un percorso incalzante e intenso.
Tutte le arti, compresa la decima musa, sono state chiamate a raccolta per ripensare ai
sedici secoli della Serenissima, tra trionfi e domini, di terra e di mare, grandezza e
bellezza, ma anche tra incendi, sconfitte militari e pestilenze, fino all’Acqua Granda del
1966 e del 2019 rappresentate simbolicamente in mostra dall’opera The Raft (La
zattera), straordinario “cameo” dell’artista multimediale di fama mondiale Bill Viola.
L’ultima sala è un invito alla riflessione sul futuro, sulla salvaguardia del patrimonio di
questa città e sulla ricerca della sostenibilità grazie a un’installazione nata dalla
collaborazione tra Gabriella Belli e Studio Azzurro. Sullo sfondo liquido che avvolge
Venezia in ogni fase della sua vita, emergono le tante voci delle persone – intellettuali,

tecnici, studenti – che si interrogano sul futuro della città: un controcanto di riflessioni,
idee e stimoli per guardare “Oltre”.
La Repubblica Serenissima cade nel 1797, ma Venezia è ancora assolutamente viva e
cosciente della sua identità e della sua fragile e potente unicità, continuamente alla
ricerca di un dialogo tra passato e presente e di una soluzione per il domani.
“Crediamo che il passato di Venezia – la storia, le tradizioni, i monumenti, i tesori d’arte
– rappresenti una risorsa notevole, una preziosa roadmap per il futuro della città”,
scrivono i curatori della mostra nel saggio introduttivo al catalogo. “La città è riuscita a
sopravvivere così a lungo perché è stata in grado di rinascere, di volta in volta, in forme
nuove e più adattabili. Guardare al passato per pianificare il futuro è assolutamente
possibile a Venezia più che in qualsiasi altra città.”
Fondamentale anche in questo senso il ruolo dei Musei Civici, con gli undici
straordinari palazzi dove si conservano e valorizzano le testimonianze cittadine: “ad
essi, più che ad altri – conclude Gabriella Belli nella postfazione – è affidato il compito
di traghettare la storia e l’immenso patrimonio artistico della Serenissima nel futuro.
Per essere contemporanei, i musei della città non possono rimanere solo memoria, ma
devono “diventare” azione, ovvero produzione culturale”.
IL PERCORSO
Dopo un’introduzione affidata ad alcune delle più note immagini-simbolo della città, è
sul mito di Venezia e sull'iconografia che ha accompagnato e consolidato la sua
affermazione come città della Vergine, città di San Marco e città della Giustizia che
prende avvio l’esposizione allestita nelle sale dell’Appartamento del Doge, a Palazzo
Ducale.
Le origini divine della Serenissima, fondate sul valore mistico attribuito al 25 marzo –
giorno dell’Annunciazione alla Madonna ma anche della creazione del mondo e di
Adamo, nonché dell’Incarnazione di Cristo e della sua crocifissione –, sono rese esplicite
con una selezione puntuale di opere: il trittico di Lazzaro Bastiani con l’Annunciazione
e la Madonna col Bambino (ca. 1490), il pannello musivo di Giovanni Novello
proveniente dalla Scuola Grande di San Rocco, che colloca l’Annunciazione in un
paesaggio veneto, e l’importante dipinto di Jacopo Palma il Giovane con la Vergine
Assunta che assiste all’Incoronazione di Venezia fatta dal Vescovo San Magno (1627).
L’opera era stata appositamente commissionata dal Senato veneziano per la chiesa di
San Geremia: qui infatti era sepolto il vescovo di Oderzo che nel VII secolo, visitando la
laguna, avrebbe fondato le chiese più antiche di Venezia, ovvero Santi Apostoli, San 

Pietro di Castello, Santa Maria Formosa, Santa Giustina, San Giovanni in Bragora, San
Zaccaria, San Salvador e Angelo Raffaele.
Ma la storia e il mito di questa città sono anche intrecciati indissolubilmente
all’Evangelista Marco, che la Repubblica elesse come santo patrono fin dal trafugamento
delle sue spoglie da Alessandria d’Egitto nell’828 e che legò a sé con la diffusione della
leggenda dell’Apparitio: l’apparizione di un angelo che avrebbe annunciato a San Marco,
naufrago nelle paludi attorno all’isola di Rivoalto, il ritorno del suo corpo in Laguna:
«Pax Tibi Marce, evangelista meus. Hic requiescet corpus tuum».
La Mariegola della Scuola Grande di San Marco, con miniature attribuite a Paolo
Veneziano, preziosissimi missali del XIV secolo mai esposti in precedenza, e ancora
raffinate promissioni e commissioni dogali, superbe legature in lamina d’argento, oro,
smalti e pietre preziose del IX e XI secolo dalla Biblioteca Marciana si accompagnano in
mostra alla bellissima Pala Barbarigo di Giovanni Bellini, dipinta nel 1488 e oggi
conservata nella chiesa muranese di San Pietro Martire. Accanto a questi, da segnalare,
anche la tela di Bonifacio Veronese raffigurante San Marco che consegna lo stendardo a
Venezia (1532), nonché gli eccezionali oggetti liturgici di manifattura bizantina prestati
per l’evento della Procuratoria di San Marco, parte del Tesoro della Basilica: la Grotta
della Vergine (dal IV al XII secolo), il famoso Bruciaprofumo a forma di edificio a cupole, il
Calice con iscrizione eucaristica dell’XI secolo, insieme alla coppa di Chorasan di
manifattura iraniana. Oggetti preziosi che ad un tempo documentano l’importante e
lunga relazione di Venezia con Bisanzio, determinante fin dai primi secoli della sua
esistenza.
Il percorso si concentra dunque sulla ricostruzione (dopo il devastante incendio del
976) della Basilica di San Marco, nonché sull’evoluzione dell’iconografia marciana in
chiave politico-religiosa con l’assimilazione del Leone di San Marco – andante, rampante,
in moeca – quale emblema stesso della Repubblica.
Infine Venezia in forma di Giustizia. A sostegno del suo immaginario e del suo
perpetuarsi nella storia, la propaganda della Serenissima porterà infatti ad integrare la
figura della Vergine con l’allegoria della Giustizia, virtù di cui Venezia era garante
attraverso le sue magistrature e il suo sistema di governo repubblicano, figura
onnipresente negli spazi ufficiali, presto identificata con la città stessa.
Ecco dunque i ritratti dei dogi Giovanni Mocenigo (Gentile Bellini) e Francesco Foscari
(Lazzaro Bastiani) che maggiormente interpretarono questo ruolo, la statua lignea
policroma del XV secolo raffigurante Venezia come Giustizia – probabilmente elemento
decorativo del Bucintoro – la tavola intarsiata con lo stesso soggetto su disegno di

Jacopo Sansovino e i simboli delle vita politica lagunare: il corno dogale, l’urna per le
votazioni, la manina di fine Settecento per lo scrutinio dei voti per l’elezione del doge, in
legno intagliato, dipinto e dorato, e – ancora – il mascherone in pietra calcarea per le
denunce segrete.
Momenti cruciali di caduta e di ripresa sono quelli vissuti nel corso del Cinquecento da
Venezia. Grazie alla forza della sua flotta, all’intraprendenza dei suoi grandi viaggiatori e
all’apertura alle comunità straniere, la Serenissima era divenuta Regina dei mari e dei
commerci e grande crocevia commerciale d’Europa e del Mediterraneo orientale, e
tuttavia appariva in piena crisi, a inizio del secolo, a causa dell’isolamento determinato
dalla Lega di Cambrai.
Con una sequenza ricchissima di opere e documenti, l’esposizione mette in luce la
supremazia di Venezia sui mari: antichi portolani, carte nautiche, atlanti e astrolabi,
modellini di galere da guerra, vedute dell’Arsenale, ma anche un olio su tela di quasi
cinque metri realizzato da Battista d’Agnolo – San Marco che assiste i Magistrati della
Camera all’armamento nell’arruolamento delle milizie marittime –, oltre ai dipinti di
battaglie navali cruciali per la vita della Serenissima, come quella di Chioggia contro i
Genovesi del 1381 o quella di Lepanto del 1571 celebrata nel grande dipinto di Andrea
Vicentino. D’altra parte la forza commerciale della città è rievocata con altrettanti
preziosi materiali come le insegne dei diversi mestieri, i richiami documentari alla figura
di Marco Polo, una selezione di monete coniate dalla zecca dogale e alcuni eccezionali
oggetti di differenti provenienze e manifatture che testimoniano, oltre alla qualità delle
lavorazioni del tempo, gli scambi e i commerci tra Venezia e i mercati di Levante e
d’Occidente. Si susseguono ricercati vasellami, gioielli, avori, cammei, argenterie,
lampassi, velluti, suppellettili in legno intarsiati, straordinarie maioliche e vetri come la
famosissima Coppa Barovier in vetro soffiato blu, con smalti e oro, del 1460-70.
Nonostante ciò Rialto, sede del mercato e delle banche del tempo – di cui una raffigurata
da Vittore Carpaccio nella Vocazione di San Matteo (1502) della Scuola di San Giorgio
degli Schiavoni – fu rasa al suolo da una serie di drammatici eventi, quali l’incendio del
Fondaco dei Tedeschi (1505), quello del mercato di Rialto (1514) e il crollo del ponte sul
Canal Grande (1524), tanto che tutta l’area fu oggetto di significative ricostruzioni e
trasformazioni. Promotore di questi interventi fu il doge Leonardo Loredan, di cui
sempre Carpaccio nel 1501-02 lascia un bellissimo ritratto esposto in mostra assieme a
una medaglia in cui Loredan offre a San Marco il progetto delle fabbriche di Rialto.
Il Cinquecento fu per Venezia anche il secolo della Renovatio Urbis, la riprogettazione
degli spazi della città in funzione delle istanze politico-identitarie dell’élite veneziana.
Provveditore generale durante la Lega di Cambrai, Andrea Gritti fu protagonista della

riconquista della città di Padova (1509) e dell’assedio di Brescia (1512). Eletto doge nel
1523, Gritti diede il via a un rinnovamento radicale dell’organizzazione urbanistica di
Venezia e della sua immagine, in risposta alla crisi politica di quegli anni. In mostra, per
illustrare la figura di Gritti e il riassetto dell’area marciana progettato da Jacopo
Sansovino, sono esposti ritratti del doge, vedute pittoriche e a stampa della Piazza e
della Piazzetta di San Marco, insieme ad elementi architettonici originali, tra i quali
alcuni frammenti della Loggetta di Sansovino scampati al crollo del Campanile di San
Marco (1902). Tra gli artisti qui presenti si segnalano Canaletto – La Piazzetta di San
Marco con la Loggetta e la Libreria (1730-1740) dalle Gallerie Nazionali d’Arte Antica di
Roma –, Lazzaro Bastiani, Gian Antonio Guardi e anche Tiziano con l’imponente
xilografia, di oltre due metri e mezzo, in cui rievoca La sommersione del Faraone nelle
acque del Mar Rosso quale immagine di riscatto dei veneziani – il nuovo popolo eletto –
dall’oppressione della Lega di Cambrai.
La storia di Palazzo Ducale è anche la storia degli incendi e delle riedificazioni che nel
corso dei secoli lo hanno reso ancora più monumentale. Era il 20 dicembre 1577 quando
un devastante incendio avvampò nell’ala occidentale di Palazzo Ducale, prospiciente la
piazzetta e la Libreria Marciana. Il fuoco si fece strada nell’adiacente ala meridionale
affacciata sul bacino di San Marco e in breve tempo raggiunse l’estremità orientale
dell’edificio, andando a lambire la parete che ospitava il celebre affresco trecentesco di
Guariento raffigurante il Paradiso. Ludovico Pozzoserrato, in un dipinto coevo prestato
dai Musei Civici di Treviso, ritrae il fabbricato inghiottito dalle fiamme, nonché la folla
che assiste inerme a distanza di sicurezza mentre gli arsenalotti prestano i primi
soccorsi con l’ausilio di scale. In quell’occasione uno dei più grandi cicli di pittura
rinascimentale presente nella Sala del Maggior Consiglio venne completamente
distrutto.
Domate le fiamme, la Serenissima decise che il Palazzo Ducale – simbolo di stabilità e
permanenza dell’ordinamento politico e civile della Repubblica – doveva rapidamente
tornare al suo splendore. Palladio avrebbe voluto riedificarlo in stile classico, come
mostra il modello esposto in mostra realizzato in anni recenti dall’architetto Antonio
Foscari; altri, meno drastici, proposero invece interventi di consolidamento. Si scelse
questa via, e la nuova decorazione pittorica del Palazzo – realizzata grazie all’intervento
dei migliori artisti del tempo – portò ai risultati che il pubblico può ora ammirare
visitando le sue magnifiche sale. Tra le pochissime opere di Tiziano rimaste a Palazzo
Ducale dopo il tragico incendio, vi è lo straordinario affresco di San Cristoforo che porta
sulle spalle il bambino: sullo sfondo, a sottolineare la protezione del Santo sulla città, si
scorge il bacino di San Marco col Campanile e la sagoma di Palazzo Ducale.

La peste fu un evento drammatico con cui Venezia si dovette confrontare in più
occasioni nel corso dei secoli, in particolare nel 1576 e nel 1630. Ciò non di meno, quelle
sciagure stimolarono la capacità di autodifesa e rinascita della città. La figura del medico
della peste e le contromisure “scientifiche” messe in campo contro il morbo emergono
nei documenti esposti – volumi, stampe, acqueforti – mentre l’edificazione dei templi
votivi del Redentore e di Santa Maria della Salute viene ricordata con le tele e le
medaglie commemorative, i modelli e i voti fatti dalla città a Cristo e alla Vergine:
bellissimi la grande tela di Domenico Tintoretto, dalla chiesa di San Francesco della
Vigna, con Venezia supplica la Vergine di intercedere con Cristo per fermare la peste, e
l’olio del Padovanino raffigurante Il doge Alvise Mocenigo inginocchiato davanti al
modello del Redentore, entrambi datati 1631, e La Processione del Redentore di Joseph
Heintz il Giovane del 1648-50. Sempre del Padovanino è la Madonna con Bambino e
modello votivo della Salute, conservata nell’omonima chiesa ed eccezionalmente prestata
per questo evento, mentre è di Marco Boschini la monumentale acquaforte con
raffigurata la processione votiva nella chiesa di Santa Maria della Salute (1717). San
Sebastiano e San Rocco, protettori dalle malattie contagiose, sono i santi che la città
invoca in questi frangenti: l’uno raffigurato in un dipinto di Pietro Vecchia di collezione
privata, l’altro nell’intenso lavoro di Bernardo Strozzi del 1670 prestato dalla Scuola di
San Rocco.
Il 1797 è l’anno fatidico del Trattato di Campoformido e della fine della Serenissima.
Eppure il secolo era iniziato tra i fasti della nobiltà veneziana, la gloria internazionale
della Serenissima regina dei mari – ben rappresentata dal famoso, grande olio di
Giambattista Tiepolo Nettuno offre a Venezia i doni del mare (1756-1758) – la
magniloquenza delle sue feste e il tripudio delle sue arti.
In particolare sono il teatro e la musica ad essere scelti come tema focale dai curatori
per riannodare i fili di questo secolo: dal Ritratto di Carlo Goldoni di Alessandro Longhi
a quello sofisticato che Rosalba Carriera ci lascia della cantante Faustina Bordoni Hasse
– uno dei fenomeni vocali del XVIII secolo – fino alle caricature pungenti di soprani e
tenori tracciate a penna e inchiostro da Anton Maria Zanetti, in prestito dalla
Fondazione Giorgio Cini; dalla Cantata delle orfanelle per i Duchi del Nord (in realtà lo
Zar Pietro il Grande e la moglie in visita a Venezia, in incognito) in un dipinto di Gabriel
Bella della Fondazione Querini Stampalia (1782-92), ai concertini in famiglia e scene di
socialità di cui sempre il Longhi dà testimonianza. Non mancano poi i giochi di piazza, le
preziose vesti di manifattura cinesi, gli abiti sontuosi delle dame del tempo e delle
cariche dogali, ormai nell’atto di accomiatarsi, insieme a uno zamberlucco, veste
destinata ai fanciulli della nobiltà.

All’avanguardia nel mondo dei suoni fin dal Rinascimento, la Regina dell’Adriatico,
appena un lustro prima della sua caduta, inaugura quello che negli anni diventerà uno
dei simboli delle tante “rinascite” della città lagunare: il Gran Teatro La Fenice, ricordato
nel percorso espositivo dal libretto originale dell’opera di esordio, I Giuochi d'Agrigento
di Giovanni Paisiello (1792), e in un bel disegno coevo realizzato da Francesco Guardi.
In quegli anni di lento crepuscolo, Venezia era riuscita comunque a fronteggiare grandi
catastrofi come l’incendio che devastò il quartiere di San Marcuola nel 1789. Lo
riportano alla memoria alcuni documenti e soprattutto un piccolo e intenso dipinto di
Francesco e Giacomo Guardi delle Gallerie dell’Accademia, Incendio dei depositi degli
olii a San Marcuola, esposto insieme a uno dei numerosi schizzi realizzati da Guardi e
custodito presso il Gabinetto dei Disegni e delle Stampe del Museo Correr.
La fine era inevitabile: L'ultimo senato della Repubblica di Venezia, appena restaurata, è
l’opera con cui afferma il suo talento allo scadere del XIX secolo il pittore accademico
veneziano Vittorio Emanuele Bressanin, formatosi sotto Molteni, di cui restano
affreschi anche nelle sale del Conservatorio Benedetto Marcello.
Il compito di rievocare gli avvenimenti di quello storico passaggio di secolo è affidato ai
dipinti di Giuseppe Borsato, con la Veduta della Piazza S. Marco il giorno
dell'innalzamento dell'albero della libertà datata proprio 1797 e l’Ingresso di Napoleone a
Venezia il 29 novembre 1807 prestato dal Museo Mario Praz di Roma.
Nel loro algido e immutabile candore, l’architettura neoclassica e la scultura di Canova –
in mostra il grande gesso della Venere Italica conservato nelle sale del Museo Correr –
sembrano non registrare la serie di traumatici passaggi che la città subisce tra la fine del
XVIII secolo e l’inizio del XIX. Nell’arco di soli sedici anni dalla sua caduta, la città passa
di mano ben quattro volte, in un continuo avvicendarsi tra francesi e austriaci. Tuttavia
Canova riuscirà, nel suo ruolo diplomatico di difensore della arti, a riportare in patria i
cavalli della basilica di San Marco sottratti da Napoleone (giunge da collezione privata
l’opera di Vincenzo Chilone che ne dà testimonianza), mentre i cambiamenti urbanistici
sanciti dai francesi e dagli austriaci incideranno sul futuro assetto della città, chiamata a
diventare una capitale “normalizzata” e al passo con i tempi, accessibile, dotata di nuove
infrastrutture e con un destino economico tutto da riscrivere.
L’arrivo della linea ferroviaria – rappresentato dalla interessantissima incisione su rame
del 1856 realizzata da Bernardo e Gaetano Combatti che mostra la Pianta di Venezia
con il ponte ferroviario (nell’edizione con linea FS) e dal Progetto per il Ponte ad archi di
cotto attraverso la veneta laguna formante parte della Strada ferrata da Venezia a
Milano, disegnato da Tommaso Meduna nello stesso anno – testimonia con chiarezza
questa trasformazione.
 

Tra slanci irredentisti e turbamenti, Venezia vive anche il suo Risorgimento anomalo con
la Repubblica di San Marco proclamata dal giovane avvocato Daniele Manin, il ritorno
degli austriaci e solo in un secondo momento un avvicinamento alle visioni unitarie. Le
opere di Querena, Dalla Libera e Borghesi testimoniano l’Assemblea veneta degli
insorti e i bombardamenti austriaci sulla città, mentre le aspettative e gli entusiasmi
connessi all’annessione nel 1861 sono palpabili nella monumentale tela di Giacomo
Casa raffigurante l’Unione di Venezia all’Italia dalle Gallerie Civiche di Udine – dove il
pittore crea una composizione ispirata ai capolavori di Veronese e Tintoretto per
Palazzo Ducale – e nella famosa Venezia che spera di Andrea Appiani, prestata per
l’occasione dal Museo del Risorgimento di Milano.
In questo contesto s’inseriscono il primo grave incendio del Teatro La Fenice la mattina
del 13 dicembre del 1836 (il successivo sarà nel 1996), ma soprattutto il ruolo da essa
giocato durante i moti risorgimentali, qui rievocati dall’Attila di Giuseppe Verdi, la cui
prima si tenne nella città lagunare il 17 marzo 1846 e di cui sono esposte in mostra
partiture originali, locandine e libretti d’epoca conservati negli Archivi del Teatro La
Fenice, accanto ai disegni delle scenografie ideate da Giuseppe Bertoja.
La sezione dedicata all’Ottocento, il secolo lungo, si chiude idealmente con il crollo nel
1902 di uno degli elementi più identitari della città: il Campanile di San Marco. La sua
ricostruzione – affrontata alla luce del dibattito sul principio teorico del “dov’era,
com’era”, che ispirerà anche la riedificazione de La Fenice negli anni Novanta – è
documentata da eccezionali stampe fotografiche d’epoca ma anche dalla cazzuola in
argento dorato utilizzata per la posa della prima pietra. Il nuovo Campanile verrà
inaugurato nel 1912, come testimonia il monumentale dipinto di Ettore Tito.
Il XX secolo pone Venezia di fronte a nuove sfide, a partire dalla necessità di ricostruire
la propria minata reputazione internazionale come passaggio fondamentale per
superare le incertezze del secolo precedente: dalla deriva delle dominazioni straniere
seguita alla caduta della Serenissima, fino alla depressione economica e al degrado del
patrimonio artistico e architettonico in cui versava la città.
Il momento fondamentale di riscatto e di risalita si avrà in particolare dopo la cesura e le
chiusure imposte dalla Seconda guerra mondiale. La XXIV Biennale che s’inaugura il 6
giugno del 1948, grazie al lavoro straordinario di Rodolfo Pallucchini e di una giuria di
grande levatura, segnerà un punto fermo nella storia di Venezia. Da un lato a dominare
la mostra è il dibattito molto acceso in Italia tra pittura astratta e figurazione, emerso
soprattutto nelle sale in cui espongono gli artisti, molto eterogenei tra loro, del Fronte
Nuovo delle Arti; dall’altro vi è l’arrivo in laguna della grande collezionista americana
Peggy Guggenheim – in mostra il Plastico dell’allestimento della collezione di Peggy

Guggenheim al padiglione greco – con la sua eccezionale raccolta d’arte e il suo intuito e
impegno nei confronti dei giovani artisti internazionali: il rivoluzionario Circumcision di
Jackson Pollock (1946), qui esposto grazie alla collaborazione della Peggy Guggenheim
Collection, fa la sua apparizione proprio quell’anno ai Giardini.
Peggy sceglierà di restare a Venezia, facendone un crocevia internazionale di artisti e
critici, mentre giovani promesse veneziane emergono dalla fucina del Fronte Nuovo
delle Arti, come Giuseppe Santomaso – in mostra Muro e alghe del 1954 – ed Emilio
Vedova, di cui viene esposta la tempera e carboncino su tela Immagine del tempo 1958
n.3 V. (Fondazione Vedova). Anche Tancredi Parmeggiani, amico di Vedova e di sicura
fede astratta, vive in quegli anni a Venezia dove si confronta con l’universo di segni e
materia di Pollock, da cui trarrà una lezione decisiva per approdare poi ad un
personalissimo linguaggio. S’intitola proprio Soggiorno a Venezia il suo dipinto del 1955.
Il secondo Novecento fa della città lagunare anche un importante teatro e motore del
confronto internazionale in campo architettonico, determinando la nascita di un polo
formativo tra i più prestigiosi in Europa e dando il via ad interventi di grande rilievo –
quelli di Carlo Scarpa in primis – soprattutto nel campo degli allestimenti museali e
dell’edilizia residenziale pubblica. Tutto ciò, nonostante il cruciale e mai sopito dibattito
che una città monumento impone – tra conservare integralmente o innovare anche in
forme coraggiose – abbia di fatto impedito la realizzazione di molti dei lavori ideati per
Venezia dai maggiori architetti del tempo: lo ricordano in mostra i modelli dell’Ospedale
Civile di Le Corbusier e del Memorial Masieri di Frank Lloyd Wright dell’Università
IUAV.
Infine, è la fotografia che documenta i momenti di crisi a noi più vicini, simbolicamente
riletti anche nell’installazione video-sonora The Rift di Bill Viola (2020). Scrive Gabriella
Belli nella postfazione del catalogo della mostra: “Il XXI secolo è iniziato, ma il clamore di
eventi drammatici come l’Acqua Granda del 1966, la grave crisi industriale che investe
Porto Marghera negli anni Settanta, l’incendio della Fenice del 1996 e, nuovamente, l’alta
marea del 2019, non si è ancora sopito. Immagini fotografiche di forte impatto
commentano questi fatti con crudezza e senza retorica, mostrando il dolore di una
comunità offesa dalla violenza della natura e colpita nei suoi simboli. La Zattera è la
trasposizione in chiave allusiva e simbolica di queste minacce e di queste sofferenze”.
“È la catarsi di un percorso che nell’empatia con il pubblico mette a fuoco l’intero
significato della mostra”.

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