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Sinapsi in Ascolto: Intelligenze Condivise tra Umano, Natura e Macchina alla 19^ Biennale di Architettura di Venezia

Sinapsi in Ascolto - 19a Biennale di Architettura di Venezia

Con il titolo “Intelligens. Natural. Artificial. Collective”, l’edizione 2025 della Biennale di Architettura si configura come un crocevia fertile di pensiero e prassi

E' un’arena intellettuale in cui la disciplina architettonica interroga sé stessa, il proprio statuto ontologico e le traiettorie possibili del suo futuro
       > Posted by Efthalia Rentetzi
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La curatela di Carlo Ratti, acuminata e visionaria, orchestra una narrazione diffusa che si dipana tra l’Arsenale, i Giardini e il tessuto urbano veneziano, trasfigurando la manifestazione in un’esperienza sinestetica e immersiva. Lungi dal ridursi a una mera esposizione, la mostra si propone come laboratorio sperimentale, dove ricerca e innovazione convergono nell’urgenza di affrontare le sfide cruciali dell’architettura contemporanea.
Ratti, nella sua funzione curatoriale, svela con acume il cuore concettuale dell’edizione, facendo vibrare il termine intelligens in tutta la sua ambiguità semantica. Ne scaturisce una visione plurale e inclusiva dell’intelligenza, che trascende la dicotomia tra naturale e artificiale, superando la monocromatica ossessione per la vexata quaestiodell’intelligenza artificiale.

Il curatore del padiglione Giappone Aoki Jun - Nei ventisei padiglioni nazionali ospitati ai Giardini, l’intelligenza si manifesta nella sua poliedrica complessità attraverso una progettualità collettiva e multidisciplinare, radicata nella diversità dialogica e costruttiva. La polivalenza del termine intelligens, che abbraccia l’idea profonda di una progettualità condivisa, ancorata nella pluralità e protesa verso futuri possibili, trova una delle sue espressioni più riuscite nel padiglione del Giappone, intitolato enigmaticamente In-BetweenCurato da Jun Aoki, il padiglione non si limita a proporre un’architettura per il futuro, ma, con una sottile inquietudine, inscena una riflessione filosofica sulla nostra relazione, sempre più simbiotica e potenzialmente alienante, con l’intelligenza artificiale.
Il termine giapponese “ma”, evocato dal titolo, non è semplice spazio vuoto o interruzione nel flusso; è, nella sua accezione più profonda, tensione dinamica tra entità, un campo di forze silenti che genera una soggettività sfuggente, in bilico tra umano e non-umano, tra natura e artefatto. È in questo interstizio, in questo spazio di scambio reciproco, che i confini si fanno porosi, invitandoci a una partecipazione che trascende il ruolo di dominatori o meri osservatori. Nel contesto di un mondo sempre più polarizzato tra nostalgia naturalista e feticismo tecnologico, il Giappone propone un’alternativa: un luogo critico e fertile, dove l’architettura si fa pratica di ascolto. Con la lucidità di chi scruta l’abisso della tecnologia senza cedere né a un ingenuo ottimismo né a un rigido rifiuto del digitale, Aoki riconosce la seduzione insidiosa di un’efficienza algoritmica che promette risposte “corrette” derivate dalla mera sintesi del già esistente, paventando una deriva verso una società omologata, anestetizzata dalla paura dell’errore.

Nella diciannovesima Biennale di Architettura, la sostenibilità non è più sfondo ornamentale ma materia viva del progetto: in un presente segnato dall’urgenza climatica, l’architettura si configura come atto insieme etico e poetico, capace di rifondare il rapporto tra spazio, materia e comunità. Numerosi padiglioni esplorano materiali eco-compatibili e, oltre l’estetica della responsabilità, delineano una nuova grammatica progettuale, dove l’efficienza energetica diventa linguaggio e la riduzione dei rifiuti una forma di essenzialità. In quest’ottica si inserisce il padiglione belga, intitolato Building Biospheres, curato da Bas Smets e Stefano Mancuso. Il progetto propone una riflessione radicale sull’alleanza tra architettura e intelligenza vegetale, riconfigurando le piante come agenti attivi di progettualità. Il padiglione, commissionato dall’Istituto di Architettura delle Fiandre, mira a instaurare quella che Smets definisce “simbiosi” tra esseri umani e mondo vegetale, tra architettura e natura, considerando la capacità delle piante di governare l’ambiente, adattandolo alle proprie necessità.

Il padiglione brasiliano, curato da Plano Coletivo, con uno sguardo rivolto all’Amazzonia, celebra l’eredità delle infrastrutture ancestrali delle popolazioni indigene, offrendo una visione rinnovata del territorio amazzonico. Lo stesso tema, ma in chiave più dinamica, si sviluppa nel padiglione del Canada, intitolato Picoplanktoctottone e concepito da Andrea Shin Ling (ETH Zurigo): qui si sperimenta una simbiosi tra biotecnologia e architettura, utilizzando cianobatteri e biofabbricazione per proporre un’architettura rigenerativa, in cui le strutture coesistono in sintonia con l’ambiente.

Il padiglione dell’Uruguay, con il progetto Land of Water, offre una riflessione intensa e colta sulla relazione intrinseca tra architettura, territorio e risorsa idrica. Curato da Katia Sei Fong, Ken Sei Fong e Luis Sei Fong, l’installazione trasfigura l’acqua da elemento naturale a matrice storica e culturale del progresso nazionale, investendola di valore simbolico e potenza generativa. L’esperienza sensoriale invita il visitatore a interrogarsi sul ruolo che l’acqua ha avuto, e continua ad avere, nella configurazione delle città e delle identità collettive, ponendo l’accento sul contributo dell’architettura nello sviluppo di strategie sostenibili e rigenerative, dove l’acqua diventa principio attivo di forma, significato e futuro.

Sul fil rouge dell’intelligenza coabitativa tra uomo e spazio si allinea anche il padiglione tedesco, che propone Stresstestun’esplorazione della crisi climatica urbana configurata come test di resistenza sensoriale e progettuale. A cura di Nicola Borgmann, Elisabeth Endres, Gabriele G. Kiefer e Daniele Santucci, la mostra espone il visitatore a un’esperienza fisica e psicologica del riscaldamento globale, affermando l’inadeguatezza delle risposte finora adottate e lanciando un invito urgente all’azione concreta, coerente con il tema curatoriale della Biennale.

I paesi scandinavi, tradizionalmente sensibili all’equilibrio ambientale, investono sul concetto di intelligenza collettiva e costruttiva, per perseguire una convivenza armoniosa tra uomo e habitat. La Finlandia propone The Pavilion Architecture of Stewardshipun’indagine sofisticata sulla manutenzione come pratica architettonica condivisa. Curata da Ella Kaira e Matti Jänkälä, la mostra svela la rete invisibile di mani — dai progettisti ai restauratori, dai lavoratori al personale di pulizia — che, dal 1956 a oggi, ha custodito l’opera di Alvar e Elissa Aalto, concependo l’architettura non come gesto isolato ma come atto continuo di cura collettiva. Con Build of Sitecurato da Søren Pihlmann, il padiglione danese abbandona ogni visione speculativa per abbracciare un gesto radicalmente concreto: l’edificio stesso si fa cantiere attivo, fondendo rigenerazione ed esposizione in un unico atto. Nessuna installazione effimera, nessun artificio scenico: solo un intervento che rilegge i materiali di recupero come risorse vitali, innescando un processo collaborativo tra arte, scienza e memoria costruttiva. Il padiglione non si limita a mostrare architettura: la incarna, sovvertendo la logica del rifiuto e proponendo un paradigma progettuale fondato sull’economia circolare e su un’intelligenza costruttiva capace di restituire valore e significato al già edificato.

Di straordinario interesse, si rivela la partecipazione della Corea, che, in occasione del trentesimo anniversario del proprio padiglione alla Biennale di Venezia, presenta la mostra Little Toad, Little Toad: Unbuilding Pavilion. Un progetto che si configura come una poetica e radicale rilettura dell’architettura, intesa non più come struttura fissa ma come “casa” in perenne trasformazione, tanto reale quanto simbolica. A guidare questo processo è la figura mitica del rospo, emblema di metamorfosi, che diventa chiave narrativa per intrecciare memoria, ecologia e immaginario collettivo. La mostra si propone di smantellare e rigenerare il padiglione stesso, restituendolo come spazio vivo, stratificato, aperto a nuove narrazioni del tempo e del luogo, evocando memorie passate e potenzialità future. La figura del rospo, guida simbolica e animale di trasformazione per eccellenza, inscrive il padiglione in una riflessione più ampia su sostenibilità, memoria e metamorfosi, interrogando la Biennale stessa. Attraverso ricerche, opere visive e installazioni speculative, l’archivio del padiglione viene riletto e decostruito, svelando significati latenti e inaspettati.

All’interno degli imponenti spazi dell’Arsenale, la Biennale di Architettura 2025 ospita venticinque partecipazioni nazionali e numerose iniziative indipendenti, delineando un percorso espositivo che si fa intreccio vibrante tra innovazione e dialogo tra diverse forme di intelligenza. Il corpus centrale della mostra si dispiega alle Corderie attraverso un percorso curatoriale strutturato in tre macroaree: assi concettuali distinti ma interconnessi, in una ricerca stratificata e immersiva che esplora le possibilità di un dialogo consapevole e armonico tra intelligenza naturale, artificiale e collettiva. La mostra si pone così come spazio di confronto con le urgenze contemporanee, attraverso un approccio innovativo, partecipativo e profondamente interconnesso fra saperi e forme di intelligenza. Ogni sezione declina una specifica manifestazione dell’intelligenza applicata all’architettura, componendo un itinerario che intreccia ricerca, etica e immaginazione progettuale. Non si tratta solo di evocare futuri possibili: la mostra li concretizza in spazi attraversabili, dove la progettualità si misura direttamente con le sfide ecologiche, sociali e tecnologiche del presente. Ciascuna sezione si sviluppa come un ambiente fluido e composito, in cui installazioni di diverse scale si intrecciano in una trama reticolare, evocando un sistema vivente in cui ogni parte dialoga con l’altra. L’impianto espositivo, insieme alla sua veste grafica, traduce visivamente il principio di interdipendenza; componenti digitali agiscono come estensioni sensibili, amplificando le relazioni tra contenuti e visitatori e introducendo nuove stratificazioni interpretative. I visitatori sono chiamati a muoversi in uno spazio che non si limita a denunciare l’urgenza del cambiamento, ma lo assume come orizzonte operativo, offrendo scenari progettuali capaci di coniugare concretezza e visione. Tra installazioni e performance si impone con forza una tendenza verso pratiche artistiche di natura relazionale e partecipativa, attraverso forme ibride che pongono l’interazione al centro dell’esperienza estetica.

Ispirata ai principi della biomimetica, l’intelligenza naturale propone habitat alternativi modellati sull’efficienza dei sistemi ecologici, indagando le possibilità di un’alleanza evolutiva tra sapere ancestrale e innovazione tecnica. Emblematica in tal senso è Living Structure, il progetto di Kengo Kuma and Associates in collaborazione con Sekisui House, Kuma Lab & Iwasawa Lab (Università di Tokyo) ed Ejiri Structural Engineers. Kuma, tra le figure più influenti dell’architettura contemporanea, continua a interpretare una pratica colta e sostenibile, dove ogni progetto si radica nel contesto attraverso un uso sapiente del materiale, inteso come medium capace di rivelare il luogo e la sua memoria. Qui, la maestria della falegnameria giapponese dialoga con algoritmi di intelligenza artificiale per trasformare legno irregolare in strutture leggere, adattive, sostenibili: non un semplice omaggio alla tradizione, ma una sua rigenerazione attraverso il linguaggio della tecnologia. A completare questa riflessione si colloca The Other Side of the Hill, una potente meditazione sul futuro demografico e ambientale del pianeta. Frutto della collaborazione tra Geoffrey West, Roberto Kolter, Beatriz Colomina, Mark Wigley e Patricia Urquiola, l’installazione esplora l’equilibrio fra crescita e declino, ispirandosi alla logica delle comunità microbiche per ripensare il rapporto tra risorse, abitare e sostenibilità. 

Non passa inosservata la Cappella degli Elefanti di Boonserm Premthada, influente architetto thailandese, che realizza mattoni con escrementi di elefante, affermando che l’architettura non riguarda la teoria o la filosofia, ma l’atteggiamento, l’empatia e la dignità umana.

L’intelligenza artificiale, emancipata da visioni distopiche, si configura come strumento progettuale capace di generare architetture flessibili e scalabili. Viene esplorata attraverso installazioni che indagano l’impatto della robotica sull’ambiente costruito e sulle relazioni sociali, toccando anche i fragili territori della ricostruzione post-bellica, dove la mappatura digitale si fa strumento di memoria e rinascita. Emblematico in questo senso è Robot’s Dream, realizzato da Gramazio Kohler Research (ETH Zurich), MESH e Studio Armin Linke. L’installazione, animata dalla presenza quasi performativa di un robot umanoide, trasforma l’atto del costruire in un’indagine poetica e critica sull’intreccio tra umanità e automazione in architettura, mettendo in scena il delicato equilibrio tra empatia e controllo, artigianato e algoritmo. Il progetto non si limita a mostrare l’efficienza dei processi automatizzati, ma ne esplora le implicazioni culturali, sociali e ambientali: una struttura in acciaio a basse emissioni, realizzata da MESH con sistemi robotici e concepita per il riuso, si fa metafora concreta di un’architettura rigenerativa e adattabile, intrinsecamente responsabile. Al Padiglione firmato da Luc Steels e Takashi Ikegami, l’intelligenza artificiale diventa soggetto e oggetto dell’indagine. In Am I a Strange Loop? l’androide ALTER3 interagisce con il pubblico, apprendendo e modificando le proprie risposte. Il progetto, ispirato alle riflessioni di Hofstadter sulla coscienza come loop autoriflessivo, invita a interrogarsi sul futuro della mente artificiale, toccando temi filosofici e climatici con la stessa urgenza. Tra scienza e arte, Steels prosegue il suo percorso ibrido, offrendo un’esperienza che dissolve i confini tra umano e macchina.
L’intelligenza collettiva emerge infine come risposta strutturale alle complessità globali, rivendicando il valore della cooperazione e della conoscenza condivisa, celebrando l’architettura come gesto corale. Emblematica è l’installazione Speakers’ Corner, ideata da Christopher Hawthorne, Johnston Marklee Florencia Rodriguez: una piattaforma pubblica animata da panel, workshop e incontri, che si configura come spazio di dissenso costruttivo e convergenza pluralista. Nello stesso spirito, il Padiglione del Perù presenta Living Scaffolding, omaggio all’intelligenza collettiva delle comunità ancestrali, concentrandosi sulle isole galleggianti degli Uros nel Lago Titicaca. Queste straordinarie strutture, realizzate con la pianta acquatica totora, incarnano un equilibrio armonico tra natura, ingegno e spiritualità. Curato da Alex Hudtwalcker insieme a un gruppo di esperti, il padiglione si ispira alle tecniche costruttive degli Uros e alla maestria nautica degli Aimara, custodi di un sapere millenario che resiste, si rinnova e guarda a un futuro sostenibile. L’installazione rievoca anche la storica Spedizione Uru del 1988, che ipotizzava antichi legami transpacifici, riaffermando la forza di un sapere condiviso e radicato.

Il Padiglione del Lussemburgo partecipa con Sonic Investigationsun progetto curato da Valentin Bansac, Mike Fritsch e Alice Loumeau che invita a spostare l’attenzione dalla vista all’ascolto, rivelando come suoni e frequenze influenzino profondamente la percezione e l’interpretazione dello spazio. L’installazione, ispirata al silenzio attivo di 4’33” di John Cage, propone un’esperienza sensoriale e filosofica che intreccia paesaggi acustici naturali e infrastrutturali, ponendo al centro una visione non antropocentrica dell’ambiente costruito. Le composizioni sonore di Ludwig Berger e i contributi teorici di Peter Szendy completano un percorso che si oppone all’egemonia visiva, offrendo l’ascolto come strumento critico per riscoprire la densità del territorio lussemburghese.

Il Padiglione di Singapore, infine, trasforma l’intelligenza collettiva in una narrazione multisensoriale con l’installazione interattiva Rasa-Tabula–Singapura: Celebrating Singapore’s Superdiversity – A Variational City, curata da Tai Lee Siang, Khoo Peng Beng, Erwin Viray, Carlos Bañón, Immanuel Koh, Sam Conrad Joyce Jason Li. Il progetto si configura come un “banchetto di idee” in cui la costruzione urbana si fa tavola condivisa: otto “portate” tematiche compongono un “dinner party” intellettuale che esplora la complessità della città superdiversa. Qui la superdiversità di Singapore è celebrata come mosaico di culture ibride, dove l’innovazione si nutre della pluralità. L’approccio curatoriale invita alla partecipazione attiva, trasformando i visitatori in commensali di un dialogo polifonico sul futuro urbano, costruito attraverso l’ibridazione di saperi, culture e tecnologie, invitando tutti a prendere parte alla costruzione collettiva del domani.

Al di là dei padiglioni principali, le proposte più audaci si dislocano nel tessuto urbano tra Venezia e la terraferma, dove si delineano traiettorie speculative che intrecciano tecnologia, ecologia e nuovi linguaggi del progetto. Alla Sala Tiziano del Centro Don Orione alle Zattere, il padiglione della Bulgaria presenta “Pseudonature”, installazione di Iassen Markov che mette in scena un cortocircuito visivo e concettuale tra natura simulata e tecnologie intelligenti. Neve artificiale sotto il sole estivo e un’“odaya” bulgara reinterpretata diventano dispositivi critici per interrogare la sostenibilità come spazio di contraddizione, più che di risoluzione. Il progetto si estende in un catalogo-manifesto, Radical Recipes for a Better Climate, che propone un cambio di paradigma: non conservare, ma adattare creativamente.

Punta invece sulla geologia futuribile il Padiglione dell’Islanda presente nello spazio Tana nel omonimo campo a Castello con “Lavaforming”, a cura di Arnhildur Pálmadóttir e del collettivo s.ap architects. In un racconto ambientato nel 2150, un cortometraggio guida i visitatori in una città costruita interamente con lava modellata: non semplice esercizio di forma, ma riflessione concreta su un’architettura che lavora con la materia viva della Terra. La lava, fusa e colata in elementi strutturali, diventa simbolo di un’alleanza possibile tra costruzione e paesaggio, al di là della logica estrattiva.

In questo scenario complesso e urgente, la Biennale Architettura 2025 si configura non come semplice vetrina di progetti, ma come un vero laboratorio partecipativo in cui la dimensione estetica si intreccia con quella etica, politica e ambientale. Le opere disseminate nei percorsi espositivi disegnano un tessuto relazionale e interdisciplinare, dove architettura, arte, scienza e tecnologia convergono per riflettere sul nostro tempo e sulle sue fragilità. L’interazione non è solo un dispositivo scenico, ma una metodologia: invita il pubblico a diventare parte attiva del pensiero progettuale, in un processo collettivo di immaginazione critica. Di fronte a un mondo segnato da crisi ambientali, instabilità sociali e trasformazioni cognitive, questa Biennale sceglie di non cedere alla retorica del disastro, ma di attivare una coscienza progettuale condivisa, capace di generare possibilità. Qui l’architettura non è risposta, ma domanda aperta — un gesto collettivo che chiama in causa l’intelligenza, naturale o artificiale che sia, come risorsa comune per costruire nuovi

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